Il segreto è “semplice” serve avere una motivazione sufficiente
La differenza sta fra una vita con un fine (inteso come scopo / motivazione) o una vita con il fine (ovvero la morte).
Tutti sapiamo che sono anche indispensabili, tra l’altro: la dieta sana, l’esercizio fisico, la prevenzione, avere buoni amici e/o familiari affettuosi e un bagaglio genetico favorevole.
Cercare di dare un senso alla propria vita, avere uno scopo da raggiungere e tenerlo vivo è indispensabile.
Vivere senza uno scopo è la peggior posizione psicologica per affrontare la vecchiaia, ma anche la vita in generale.
Uno dei pericoli più comuni sta nel lasciarsi coinvolgere da pensieri negativi tipo: ho sbagliato tutto nella vita.
Fingersi giovani ad ogni costo, è solo patetico e suscita compassione e non empatia; non da soddisfazione a lungo termine, perché prima o poi ci si imbatte nella cruda realtà.
Non mettersi al centro dell’universo, ma ricordare che la vita è difficile per tutti e non credere che una persona che appare felice lo sia veramente. Guardarsi intorno e prendere atto che i problemi e i grandi dolori sono parte della vita.
Anche il perdono può aiutare ad avvicinarsi alla serentità. Un animo non rancoroso ci tiene lontano da tanti “mal di pancia”.
Alla fine è la qualità della vita ciò a cui dovremmo aspirare e non il sopravvivere ad ogni costo con l’unica motivazione di vivere sino a … “120 anni”.
Buone letture, una passione per un hobby: fotografia, disegno, giardinaggio, musica, camminare in montagna, viaggiare (chi può economicamente), possono aiutare a trascorrere una serena vecchiaia.
Il libro di una tragedia può anche servire a scoprire il lato migliore di noi
- ” La vita vale la pena di essere vissuta in qualunque situazione; e l’essere umano è capace, anche nelle peggiori condizioni, di “mutare una tragedia personale in un trionfo “
Un documento umano di straordinario valore:
- anche un libro ci può aiutare, per esempio “L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti” di Viktor E. Frankl
Viktor Frankl, psichiatra, fu deportato nel settembre del 1942 a Theresienstadt, in Boemia, per poi essere trasferito ad Auschwitz, a Kaufering III e quindi a Türkheim.
Scampò alla morte, ma perse le persone più care.
Rientrato a Vienna dettò in soli sette giorni le sue memorie. Ciò che ne scaturì è questo libro.
Non è un trattato, ma neppure un semplice memoriale della deportazione. È un documento umano di straordinario valore, il cui successo non è dovuto tanto all’oggetto del discorso, quanto alla particolarissima prospettiva con cui viene affrontato e al profondo messaggio che trasmette: la vita vale la pena di essere vissuta in qualunque situazione e l’essere umano è capace, anche nelle peggiori condizioni, di “mutare una tragedia personale in un trionfo”.
Proprio questo aspetto costituisce uno dei motivi della inossidabile attualità dello scritto di Frankl: esso, infatti, pur narrando i tragici eventi a cui si riferisce, li trascende per incentrarsi sull’esplorazione della natura umana e delle sue potenzialità.
E, in questo senso, ciò che dice vale non solo per l’esperienza della detenzione, ma anche per tutte le altre “situazioni-limite” (la sofferenza, la malattia, la disabilità, il lutto, ecc.) che sfidano la capacità umana di resistere e di sopravvivere.
Ognuno di noi, pertanto, può trovare in questo libro un riflesso di sé: non necessariamente di ciò che è stato, ma magari di ciò che può diventare nonostante gli “urti” della vita, opponendosi al proprio destino e dominandolo dall’interno. Leggere Frankl è un’esperienza di rivelazione: ci induce a scoprire i lati migliori di noi.
